Totti: "Giocare altrove avrebbe rovinato 25 anni di carriera. Spalletti tra quelli che hanno spinto di più per il mio abbandono"
«Io ero come loro, li conosco bene, conosco il linguaggio segreto fatto di occhiate, mezze parole. E cerco di rendermi utile. Adesso si parla quasi solo inglese. Se non lo sai non capisci un cazzo. E si fa meno gruppo. In ritiro, rientrato dal campo, ognuno si isola in camera sua col telefonino... A navigare, a mandare messaggi ».. Queste le parole di Totti in un'intervista a Il Venerdì di Repubblica.
E adesso che fai quando ti alzi? Ti annoi?
"Ancora no. Le giornate sono quasi come quelle da calciatore. Mi sveglio, porto i figli a scuola, poi vado a Trigoria, sto col mister, la squadra, seguo tutti gli allenamenti. Dopo pranzo torno e mi dedico ai ragazzi".
Quest’estate i rotocalchi ti hanno tampinato come se fossi ancora in attività.
"Mi vengono appresso pure adesso che ho lasciato. È il loro lavoro. Ma pensa tu in che mondo viviamo".
Perché non hai chiuso la carriera giocando in Asia o in America?
"Perché avrei rovinato 25 anni di carriera. Ho sempre detto che avrei indossato un’unica maglia. Sono di parola".
Il Milan era pronto a scucirsi 300 milioni. E avevi solo 12 anni.
"In quel caso il no fu della mia famiglia. Soprattutto di mia madre. È vecchia maniera: apprensiva, possessiva. Papà lavorava fino a tardi. Era sempre lei a starmi dietro. Mi voleva tutto per sé".
Anche da qui il soprannome di “Pupone” che hai sempre detestato.
"Beh sì. Se lo inventò un giornalista del Messaggero, Mimmo Ferretti, in senso affettuoso. Però è diventato sinonimo di eterno ragazzino, di immaturo".
In Curva Sud hai smesso di andarci a 14 anni.
"Dopo un Roma-Napoli ci furono scontri. Scappai. Quando sono tornato per recuperare il motorino era disintegrato".
I capi della Sud li guardavi "tra ammirazione e paura".
"Da tifoso non avevo grandi rapporti con loro. Li ho conosciuti da giocatore: qualcuno ha parecchi casini alle spalle. Altri no, o di meno. C’è di tutto".
Il fallaccio a Balotelli in finale di Coppa Italia?
"Erano anni che mi provocava, insultava me e i romani. Un continuo. Alla fine la cosa è esplosa. Fu un fallo orrendo, proprio per fargli male, ma i giocatori dell’Inter non mi assalirono. Mentre uscivo per l’espulsione, Maicon mi diede il cinque. La sensazione è che anche tra i suoi compagni Balotelli creasse qualche irritazione".
Una leggenda narra che alla Roma sbarravi la strada all’acquisto di campioni che potessero farti ombra…
"Discorsi da bar. Se i campioni non arrivavano era per limiti di budget, mica per scelta mia. Ho sempre voluto vincere e non veder vincere".
Un’altra leggenda racconta che la notte del 3 a 0 al Barcellona non hai esultato perché rosicavi di non essere più in campo…
"Qualsiasi cosa faccia c’è sempre qualche critica. Io so cosa provo e non ho niente da dimostrare. È vero, al primo gol non ho esultato, ma perché non avevamo ancora portato a casa la partita. Al secondo mi sono alzato in piedi ed al terzo ho preso in braccio mio figlio Cristian. Quelli che criticano non m’hanno visto? Vedono solo quello che je pare".
Con Capello ci sono stati alti e bassi. Di lui dici: “E’ un tuttologo”…
"Quando parli con Capello hai sempre torto. Sa tanto, ma l’ultima parola deve essere sempre la sua. Se passa un piccione e lui dice che è un gabbiano, ti dimostrerà che è un gabbiano. È cocciuto, perfezionista. Un maniaco".
È vero che da piccolo incollavi le figurine dei giocatori della Lazio al contrario?
"A testa in giù. Uniche in tutto l’album."
Al momento dell’addio però gli Irriducibili della Curva Nord ti hanno reso onore con lo striscione: I nemici di una vita salutano Francesco Totti…
"Ci può essere sempre il cretino che insulta o fa la battutaccia, ma quando li incontro per strada la maggior parte dei laziali sono sportivi, mi fanno i complimenti. E anche quelli delle altre tifoserie se mi vedono in tribuna a Bergamo, Milano o Torino. E pensare che quando giocavo mi facevano a pezzi. Forse anche allora gli piacevo, ma non potevano dirlo".
Quando hai capito che era arrivato il momento di staccare?
"Non è stato un mio pensieri, ma una cosa voluta dalla società. È l'unica ombra che s'è creata tra me e la Roma. Perché un conto è decidere con la propria testa e un altro farsi mettere i paletti da altri. Certo, mi rendo conto che finché stai lì non vorresti mai smettere. Ma non pretendevo di giocare 60-70 partite l'anno, volevo solo restare a disposizione. Comunque meglio smettere che restare senza mai alzarsi dalla panchina".
Tra i grandi fautori del tuo abbandono, Luciano Spalletti…
"È quello che ha spinto di più. Con la società erano una cosa sola".
Il tuo lavoro è quello di mediatore tra il mister Di Francesco e lo spogliatoio…
"Sì, i giocatori sono bestie, sono bastardi, ma mi portano rispetto. Io ero come loro, li conosco bene, conosco il loro linguaggio segreto fatto d’occhiate, mezze parole. Cerco di rendermi utile. Nello spogliatoio ora si parla quasi solo inglese. Se non lo sai non capisci un cazzo. E si fa meno gruppo. In ritiro, rientrato dal campo, ognuno si isola in camera sua col telefonino a navigare o mandare messaggi".
Ma insomma, che vuoi fare da grande?
"Ancora non lo so. Per adesso mi godo questo momento vicino alla squadra e alla Società. Respiro l’aria del campo".